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Keynes e Say: le diverse interpretazioni della crisi del ’29

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Keynes e Say sono due personaggi a cui bisogna dare attenzione quando si parla di una delle più grandi crisi del 900.

Ci riferiamo alla crisi 29 che ha visto contrapporsi la teoria neoclassicista con la teoria economica keynesiana.

Le teorie di Keynes, quindi, iniziarono a farsi strada tra gli esperti della dottrina assieme a quello che viene definito metodo keynesiano.

Come ogni campo di studio, anche la macroeconomia si presenta come una disciplina controversa che è stata oggetto di intensi dibattiti tra gli economisti.

Le diverse prospettive si sono tradotte in altrettante teorie in grado di offrire interpretazioni alternative circa il funzionamento dell’economia nel suo complesso. Tra tutte queste teorie spiccano le teorie keynesiane.

Keynes e Say: la vicende storiche

A cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta, per interpretare la crisi che colpì gli Stati Uniti nel 1929, emersero due visioni economiche discordanti. L’opinione si divise in due fazioni: l’interpretazione neoclassica, con la legge di Say, e quella “keynesiana”, dal nome del celebre economista Keynes. Per sapere di più sulla Grande Depressione vai a crisi del 29.

La teoria neoclassica: la legge di Say

Secondo la legge di Say, formulata dell’economista francese J. B. Say,

ogni offerta crea la propria domanda, ovvero esisterà sempre, in un’economia di mercato, un livello di domanda dei beni prodotti, sufficiente a mantenere la piena occupazione dei fattori produttivi in modo da non influenzare il naturale funzionamento del mercato.

È dunque impossibile che si verifichino, a livello macroeconomico, crisi di sovrapproduzione che diano luogo a persistenti fenomeni di disoccupazione.

keynes e say
J. B. Say

Sotto questo profilo, difatti per i neoclassici, crisi e disoccupazione sono soltanto fenomeni accidentali che i meccanismi di mercato, se lasciati funzionare in modo autonomo, quindi senza intervento di forze esterne come lo Stato, sono sempre in grado di autoregolarsi.

Lionel Robbins, esponente di tale pensiero, come riportato nella sua celebre opera “The Great Depression” sostenne che per uscire dalla crisi non bisognava fare assolutamente nulla. Si doveva, dunque, permettere alla depressione di seguire il suo corso e solo questo modo di procedere avrebbe potuto assicurare la guarigione.

Secondo l’autore, difatti, la causa di tutto ciò era stata un accumulo di veleni nel sistema. Il periodo di crisi risultante, aveva proprio la funzione di espellere tali veleni.

Keynes e Say: nasce la teoria Keynesiana

La Grande Depressione mise però a dura prova la teoria economica neoclassica. Ed è proprio qui che bisogna capire il ruolo di Keynes e la crisi del 29.

Il suo perdurare sembrava smentire la capacità di un’economia di mercato di ritrovare un equilibrio di piena occupazione delle risorse e di benessere.

In questo contesto emerse sempre più l’interpretazione dell’economista britannico John Maynard Keynes.

Egli dominò il pensiero economico dagli anni ’30 agli anni ’60 del ventesimo secolo.

La sua teoria economica, che si discostò dal pensiero liberista del laissez-faire, improntata sul libero mercato e sul non intervento dello Stato nell’economia, fu la base del New Deal inaugurato dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt. L’intento era quello di uscire dalla crisi del ’29.

Per approfondimenti sulle politiche di risanamento ed il New Deal vai a uscire dalla crisi.

Keynes, contrastando radicalmente la teoria economica neoclassica, affermò che dalla domanda si determina sia il livello di produzione di una nazione, sia il prodotto interno lordo, sia l’occupazione.

Questo principio prende il nome di “principio della domanda effettiva”.

Si tratta di una rottura radicale con il pensiero economico tradizionale, basato sulla legge di Say, cioè sull’idea che l’offerta crei la sua stessa domanda.

Keynes inoltre comprese l’importanza della moneta come “riserva di valore”; non necessariamente tutto ciò che è prodotto debba essere venduto anzi, è proprio la moneta in eccesso ossia quella risparmiata che genera un restringimento della produzione e dell’ occupazione causato dal deficit di domanda.

Egli insomma rifiuta l’idea che il capitalismo funzioni come un sistema meccanico e quindi rifiuta l’accostamento dell’economia alle scienze naturali ed “esatte”.

In contrapposizione al pensiero dei moderni economisti, che focalizzano l’attenzione sulle aspettative razionali degli attori del mercato, Keynes invece si soffermava su altro:

  • sull’incapacità degli imprenditori di prevedere ogni singola scelta della loro azione,
  • data la natura stessa del mercato che è sotto molti aspetti accomunabile ad un gioco d’azzardo con tutte le incertezze che ne derivano
  • è impossibile agire in maniera razionale.

Invece di lasciare tutto al caso come sostiene la teoria neoclassica, egli afferma che solamente attraverso mirate politiche monetarie e fiscali è possibile riequilibrare i mercati in quanto non sempre essi hanno la capacità di autoregolarsi, difatti la disoccupazione di massa ne è l’esempio più evidente.

La proposta di Keynes per uscire dalla crisi

Essendo il prodotto interno lordo e l’occupazione collegati alla domanda, essenzialmente per poter generare un qualsiasi aumento ed uscire dalla crisi, occorrerà agire direttamente sui componenti della domanda aggregata, in quanto un incremento della spesa è in grado di assorbire completamente l’eventuale produzione in eccesso.

Egli suggerì quindi che fosse lo Stato attraverso una politica fiscale espansiva ossia un aumento della spesa pubblica a sostituirsi ai mancati investimenti degli imprenditori in modo da a sostenere oltre che la domanda globale anche l’occupazione in momenti di crisi economica. Tale meccanismo è noto con il nome di “moltiplicatore keynesiano”

In particolare propose i lavori pubblici come antidoto alla crisi: strade, ferrovie, case.

Questa è difatti la ricetta applicata durante la Grande Depressione dagli Stati Uniti.

Tale ideologia riscosse un enorme successo, tanto da rimanere predominante fino agli anni Settanta. Successivamente una nuova crisi stravolse gli equilibri che si erano venuti creare. Prevalse nuovamente la corrente liberista attraverso la privatizzazione delle aziende pubbliche, la dismissione delle partecipazioni statali e la continua deregolamentazione del sistema finanziario.


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